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18 agosto 2010
Metro e Marshrutka
2 Aprile 2010 – Altri mezzi di trasporto che abbiamo frequentato nei nostri dieci giorni ucraini sono stati la metropolitana e le marshrutky, i pullman di linea.
Come ho già detto, la metropolitana ucraina funziona a gettoni, proprio nello spirito anti-usa e getta dell’intera nazione. Niente biglietti di carta che poi si buttano per terra all’uscita: a Kiev e Kharkov la metro si prende con una monetina di plastica che costa 2 grivne, ovvero venti centesimi. All’ingresso della stazione, tra donne che vendono verdure marroni e piccoli chioschi di tè e ricariche telefoniche KIEVSTAR e LIFE, si nascondono alcune macchinette incolori che in cambio di un biglietto da dieci grivne, sputano fuori cinque gettoni.
Per accedere ai binari bisogna infilarne uno in una fessura e poi infilarsi a propria volta tra due tornelli assolutamente privi di sbarre. Io e Clava ci siamo domandati se fosse proprio necessario infilarlo, questo gettone, visto che nulla ci ostacolava. Gli ultimi giorni, Sergej di Kharkov ci ha spiegato come funziona: se passi con nonchalance senza pagare il dovuto, una sbarra di acciaio si alza bruscamente ad altezza ginocchia e probabilmente, oltre ad ostruire il passaggio, ti spezza le giunture.
A Kharkov la metropolitana potrebbe essere un’attrazione turistica di per sé, come suggerisce la Lonely Planet. Alla fermata Universitait siamo rimasti ammutoliti a fissare il soffitto mentre uomini e ragazzine con la borsetta appesa al braccio ci sfilavano intorno verso l’uscita. La volta era acuta e liscia, e la sua sobrietà metteva quasi in soggezione. Le scale erano prive di qualsiasi colore, niente cartelli pubblicitari o corrimano rossi di plastica. Niente corrimano, se è per questo. E in centro, ad almeno sette metri e mezzo di altezza stava appeso un lampadario composto da forme geometriche sospese e ordinate, un miscuglio di Calder e del Bauhaus. Con un tocco sovietico. Clava fotografava, ma c’era poca luce e probabilmente non è venuto niente… Eravamo almeno centinaia di metri sottoterra: per risalire ci abbiamo messo dieci minuti buoni e ogni scala mobile sembrava portare ad un’altra infinita scala mobile.
Tutto un altro ambiente erano le marshrutky, che non so come mai in italiano siano passate al femminile visto che sono dei semplici minibus: è stato sempre così, anche quando eravamo lì le chiamavamo “le marshrutke”. Il fatto è che un certo tocco femmine ce l’hanno. A cominciare dalle tendine a fiori sgualcite che coprono tutti i finestrini, per finire con la gestione casalinga della riscossione della tariffa di viaggio. Clava un giorno ha commesso l’errore di sedersi esattamente di fianco al guidatore e per un’ora, ad ogni fermata, le cinque o sei persone che salivano gli passavano i loro soldi perché li mettesse nella cassetta, e se era il caso aspettavano il resto. Chi saliva in fondo affidava le sue banconote a una lunga sequenza di mani, ma il destinatario era sempre il piccolo cassiere Clava che gestiva tutti i guadagni del signor autista.
Questo lungo viaggio sulla marshrutka ci stava portando da Kharkov a Zolocev, il piccolo paesino di mia sorella Caterina. Dal capolinea all’istituto c’era ancora una camminata di circa mezz’ora: si usciva dal paesino camminando sul ciglio della strada che avanti avanti porta al confine con la Russia. Subito prima di una collinetta giravamo a sinistra ed entravamo in una strada sterrata, perennemente ricoperta di fango. La campagna ucraina intorno a noi: case basse con i tetti di grigio ethernit e le pareti azzurre o gialle o di qualche colore allegro, ma basse e cupe, senza quasi finestre, le imposte a penzoloni, e bambini che giocavano in gruppetti. Sempre bambini dappertutto: ce n’è così tanti lì che alcuni sono in esubero e finiscono all’istituto. Alberi scuri che invadono la strada, croci di legno piantate nel terreno intorno alle case. Anche una piccola zona cimitero all’ombra di ampi sempreverdi.
Il cielo era plumbeo, ma non pioveva. Alla fine della strada sterrata c’era l’azzurro chiosco di patatine nei sacchetti e bevande dolciastre in cui Caterina e le sue amiche spendono i pochi soldi che hanno, e che non usano per il cellulare. L’istituto è lì davanti, e noi ci siamo arrivati verso le quattro del pomeriggio, quando i bambini erano appena tornati da scuola…
Alle sei e mezza partiva l’ultima marshrutka da Zolocev per Kharkov. Io e Clava siamo ripartiti per tempo, circa quaranta minuti prima, e con una certa ansia abbiamo intrapreso la strada del ritorno, l’orologio sempre sotto gli occhi. Il fango ci frenava un po’, ma per le sei e venti eravamo al capolinea dei minibus.
Solo che non c’era la marshrutka, ed intorno a noi il nulla. Ovvero: una signora che si agitava perché non sapeva come arrivare a Kharkov, improvvisamente scomparsa dietro la pensilina; un chioschetto azzurro al cui interno una gruppetto di uomini vestiti di nero fumavano con i nasi rossi e puzzolenti di alcol; qualche Lada che passava, ci scrutava, e ripartiva; uno spiazzo sterrato. Nessuno a cui chiedere, senza contare il problema di farsi capire.
È stata una mezz’ora di panico e assoluta incapacità di trovare una soluzione, poi con tutta calma e grande flemma vediamo tornare la signora che si agitava e dopo un minuto, ecco la marshrutka su cui distinguiamo subito la bellissima X di Kharkov e via di seguito le altre lettere cirilliche che ci avrebbero riportato in città.
13 luglio 2010
Rodina Mat
28 Marzo 2010 — L’unica cosa che accomuna Kiev Odessa e Kharkov è probabilmente questo buco pieno di gas sotto un imponente obelisco di pietra nera lucida. In tutte e tre le città, dal buco spunta un fuoco sempre acceso che commemora le vittime della seconda guerra mondiale, giorno e notte. Qui in Ucraina l’invasione tedesca è durata dal 1941 al 1945, e secondo uno dei nostri informatissimi ospiti, i tedeschi che ci hanno lasciato la pelle sono stati sette milioni. Gli ucraini però non si contano.
Per vedere l’obelisco di Kiev bisogna prendere la metro (niente biglietti, si va a gettoni, come nelle cabine telefoniche degli anni ’90 tranne che questi sono di plastica blu, alcuni tanto consumati da essere quasi trasparenti) e scendere Pecherska. Tutti i complessi sono lì: il dorato Pechersk Lavra, meta di pellegrinaggio dei cristiani ortodossi di tutto il mondo, i monumenti che commemorano i caduti della seconda guerra mondiale. E la statua della bambina con le trecce che porta un mazzo di grano: per ricordare la terribile carestia del 1932, quando Stalin lasciò morire milioni di ucraini, piegando a sé il granaio d’Europa.
L’idea che mi passa per la testa è: qui si sono succedute una serie di sciagure di cui noi abbiamo a malapena sentito parlare.
E abbiamo passeggiato oltre il museo degli aerei, tra i carro armati che hanno fatto la guerra in Afghanistan (ecco qui le armi segrete dei terribili russi, mi pareva di essere in uno dei film che guardavo da piccola nella mia TV americocentrica), oltre lo strano furgone che in realtà era un lanciarazzi pronto a distruggere vite a distanza di 5000 km. E mentre il nostro ospite, Artu, mi forniva particolari essenziali come questo (ah, sapevano farle le armi, i russi) nella sua voce compariva a tradimento una specie di bizzarro orgoglio trasversale.
Che è culminato quando ci siamo trovati davanti un’enorme Statua della Libertà Russa: una donna in titanio bianco splendente al sole, con entrambe le braccia alzate a reggere nella sinistra uno scudo con falce e martello, e nella destra una spada grande come la torre di Alexander Platz, lo sguardo perso verso l’orizzonte, una corona intorno alla testa. Da parte mia, c’è stato un attimo di incertezza: ma è vera? E non sono riuscita a trattenermi dall’esplodere:- Ma… sembra la Statua della Libertà!
E Artu ha risposto con nonchalanche: – Si. Ma è 15 metri più alta.
Nota: scopro poi molto dopo, cioè ora, che questa statua ha un nome, RODINA MAT e che si può salire in ascensore fin dentro la testa della signorina! La Lonely Planet ne parla con malcelato disgusto, tra l’altro.
28 giugno 2010
Il borsh di Sergey
Una ricetta da Odessa: la versione personale di Sergey, il nostro english speaking host e fotografo provetto, del minestrone di barbabietole più famoso dell’est Europa!
Ingredienti:
1 bicchiere di fagioli (metterli a bagno la sera prima: Sergey non usa quelli nei barattoli, ma i fagioli secchi), 3 barbabietole medie, 3 carote medie, 2 cipolle bianche, 9 patate piccole (o 3 grosse), ¼ di cavolo bianco, 100 grammi circa di salo (ovvero di delizioso lardo speziato), 250 grammi (credo, circa, spero) di pasta di pomodoro altro ingrediente fondamentale della cucina ucraina che corrisponde al pomodoro concentrato (Sergey specifica: NON la passata di pomodoro, serve proprio la pasta), 1 spicchio di aglio, 1 ciotola di funghi (quelli che stanno dentro un piatto fondo, quelli che erano al fondo dell’ultimo ripiano del frigo di Sergey): facoltativi
Fondamentale, da aggiungere alla fine: smetana, o yogurt greco, o panna acida. Mai e dico mai aggiungerla nel pentolone: il borsh si fa in minima parte per mangiarlo appena pronto, ma soprattutto per goderselo il giorno dopo, e versare la smetana nel pentolone rende la conservazione impossibile! La smetana viene servita sempre in un barattolo o bicchierino a parte, questo abbiamo imparato.
Preparazione:
Numero uno: mettere a bollire i fagioli ormai morbidi in una pentola che chiameremo la terza pentola (in ordine di importanza). Poi affidare a qualcuno il taglio delle verdure, senza dimenticare di dargli le dovute, accuratissime indicazioni: la barbabietola deve essere abbastanza grossa, fette alte un centimetro e lunghe cinque, circa, le carote vanno grattugiate alla julienne, le patate a cubetti non troppo piccoli, i funghi devono essere fini fini, come le cipolle, mentre per il cavolo non c’è bisogno di grande cura, anzi se rimane un po’ spesso va anche meglio (per fortuna, penseranno i due zelanti ma inesperti aiuto cuochi). Mentre i giovani tagliano e tagliano (controllare prima di avere due coltelli, per evitare di usare quello normalmente destinato al fumo), caricarsi nello zaino due bocce di plastica da cinque litri, e correre in bici a prendere l’acqua nel pozzo vicino al big theater. Non ci vorrà più di un quanto d’ora, ed è caldamente sconsigliato bere quella che esce dal rubinetto di una città ucraina. Ma neanche se bolle? Neanche se bolle, “I’ll go to the font”.
Versare nella pentola grande, la seconda pentola, un paio di litri d’acqua e metterla a bollire. Affettare il salo in piccoli rettangoli spessi un centimetro e farlo rosolare nella pentola numero uno, quella a cui ci dedicheremo d’ora in avanti. Sergey infatti soffrigge tutte le verdure nel lardo, ma questa è una particolarità della sua ricetta: molta gente le fa soltanto bollire. Il salo è buono da morire, nell’attesa lo mangiamo su pane nero. Sergey ci dice che si usa con tutto, anche per fare le patatine fritte. Al posto del salo in effetti vanno bene sia burro che olio, se proprio si vuole togliere ogni aspetto esotico da questa ricetta…
Quando il salo si è sciolto per metà ed ha rilasciato uno spesso strato di grasso liquido sul fondo della pentola numero uno, unire le barbabietole, girarle un po’ e poi coprire. A questo punto inizia l’attesa: si consiglia di smettere di mangiare il salo per non guastarsi l’appetito e di passare alle bevande. Come dice Sergey, durante la preparazione del suo borsh, è fondamentale bere “lots of kefir, or black tea”.
Dopo una ventina di minuti, quando la barbabietola è ben morbida, aggiungere i funghi (sempre facoltativi) e coprire. Altri venti minuti, ed è il momento della cipolla. Dopo il divertente resoconto del matrimonio di una coppia di vostri amici freak, che potrà durare all’incirca una decina minuti, o almeno finchè le verdure non hanno di nuovo perso l’acqua, aggiungere le carote e subito il cavolo.
Lasciar appassire di nuovo e poi aggiungere i fagioli (precedentemente scolati, ma conservando un po’ di acqua), quattro grosse cucchiate di concentrato di pomodoro, un pizzico o due di sale, e l’acqua della cottura dei fagioli. In caso le verdure iniziassero a bruciacchiarsi, si può anche aggiungere un po’ dell’acqua che sta bollendo nella pentola numero due. Ricordate? La pentola numero due è sempre lì, di fianco alla uno, e bolle e bolle. Quand’ecco che finalmente, arriva il suo momento.
Quando il composto nella pentola uno si è sgonfiato e le verdure sembrano quasi pronte, buttare nell’acqua bollente della pentola numero due le patate, e aggiungere uno spicchio d’aglio alle verdure stufate (perché adesso e non prima? Questi sono misteri che non si possono spigare, come che fine abbia fatto poi il suddetto aglio: credo che l’abbia tolto, ma quando? Non sono state fornite spiegazioni). Poi, dopo poco, trasferire tutto il contenuto della pentola numero uno nella pentola numero due (che a rigor di logica ora dovrebbe diventare la numero uno, ma per non confondere questa già confusa ricetta, mi atterrò al suo nome originale), con un cucchiaio. Quando le patate sono morbide al punto giusto, circa un quarto d’ora dopo, il borsh è pronto. Nel frattempo, sgombrare il tavolo, togliere il cubo di Rubik, la bottiglietta dell’acqua vuota, le tazze sporche e i resti del pranzo. Quindi, spegnere il fuoco, lasciar riposare cinque minuti (sarebbe meglio un giorno intero, dice Sergey, ma…). Servire con il solito cucchiaio in piatti fondi e molto capienti, aggiungere smetana, ottima smetana (possibilmente marca Salus), e mangiare con ingordigia. (Anche perché Sergey non concepisce che voi possiate avanzare alcunché, nemmeno una sottilissima striscia di fungo, o un rivolo di smetana.)
Queste dosi consentono di preparare un ottimo borsh per sei persone, o anche di più, ma nel caso tu sia tutto solo (o in due o tre) ricorda: non diminuire le dosi, ma fanne in abbondanza, che Sergey la pensa così, e tu stai facendo il suo borsh!
17 giugno 2010
Sergey, Nina e Solomija
3 Aprile 2010 — L’ultimo pomeriggio che abbiamo passato a Kharkov (che si legge con Kh aspirata, come Mikhail) siamo stati invitati da Sergej a casa sua. Questo Sergej di cui sto parlando è un fisico di trent’anni che conosce l’italiano e che mia madre ha assunto perché lo insegnasse a Katerina, e ai bambini dell’istituto che dovessero manifestare qualche interesse.
Il tre aprile, dunque, verso le due e mezza, abbiamo preso il pullman 289 alla fermata Universitait, lungo Prospecta Lenina, in direzione periferia. Il biglietto costa 2 grivne e per arrivare a casa di Sergej, che è al capolinea, ci vuole una mezz’ora. La zona è molto bella, e dovessi scrivere una guida di Kharkov, la consiglierei.
Il cielo era azzurrissimo dopo cinque giorni di pioggia e abbiamo aspettato volentieri, seduti su un’altalena, che Sergej ci desse il permesso di salire. Diceva,“Nina sta nutrendo la bambina, possiamo aspettare?”
Nina è sua moglie, alta e bionda, con una faccia antica e modi di fare antichi.
Siamo saliti nel loro appartamento verso le tre e mezza, e quello strano pasto che sta a metà del pomeriggio ucraino era quasi pronto sui fornelli. C’erano patate lesse, polpette di maiale e smetana, cetriolini fermentati, pomodori fermentati, frutta e cioccolata, e tè, nero o verde. In mezzo al salotto vuoto era apparecchiata la tavola di legno. Come ci ha spiegato Sergej, si erano trasferiti da poco, e la casa era ancora in fase di preparazione: la culla di Solomija, una stufetta elettrica a forma di caminetto con tanto di fiamme rosse di plastica.
Solomija è la figlia di Sergey e Nina, ha due mesi e io non l’ho vista. La riservatezza eccezionale delle famiglia ha fatto sì che, una volta ricevuto il permesso di salire, la bambina fosse già addormentata nella sua culla e ricoperta di pizzo, una velina bianca la nascondeva pudicamente, silenziosa come una bambola. La nonna, la madre di Nina, spingeva la culla verso l’uscita, con il volto gonfio e per metà paralizzato rivolto verso il pavimento, e il corpo pronto a proteggerla da questi sconosciuti. Ci ha lanciato uno sguardo obliquo ed è entrata nell’ascensore. Solo dopo mi hanno raccontato che non si usa fare vedere i neonati agli estranei, per paura del malocchio.
Uscite le figure misteriose, ci siamo seduti intorno alla tavola, che poco a poco si è riempita: di piatti consumati e pentole, vassoi, teiere fumanti, barattoli e bottiglie, ma non di parole. Per non escludere Nina infatti, siamo infatti passati dall’italiano (che Sergej parla con interessante goffaggine) all’inglese, ma lei ha continuato a non aprir bocca se non per sorridere con gentilezza e suggerire in ucraino a Sergej di dare il buon esempio con i pomodori fermentati.
Anche da fuori non arrivava nessun suono: eravamo al decimo piano, in mezzo a silenziosi condomini lontano dalle automobili, e in basso verso il sole vedevamo il bosco verde allungarsi tra noi e il centro della città.
Nina mi ha mostrato i lavori a maglia ai quali si era dedicata durante la gravidanza, un orsacchiotto bianco e azzurro, qualche calza minuscola. Intanto Sergey e Clava si scambiavano consigli fotografici: anche lui infatti aveva qualche velleità, anche se si indirizzava più che altro verso i paesaggi. I Carpazi andavano per la maggiore.
Mi sono resa conto piano piano, abituata ad un modo di fare più informale con le persone della mia età, che i nostri ospiti ci trattavano con estremo riguardo. Quando ho chiesto di fare una foto a Sergej per mia madre, che non lo ha mai incontrato, Nina ha avuto un lampo di frenesia negli occhi: l’unico momento spontaneo di quel pomeriggio. Si è alzata di corsa ed è uscita dalla stanza per tornare dopo un secondo con un pettine bagnato in mano. Sergej era impalato di fianco a lei e si è dovuto abbassare un poco perché potesse pettinarlo. Quindi, si sono messi in posa per farsi documentare, con grazia.
Poi hanno impacchettato dolci, meringhe, un pandoro, biscotti secchi e cioccolatini per il viaggio e sono scesi ad accompagnarci al taxi. Io e Clava, commossi, abbiamo chiesto al tassista di fotografarci insieme a loro.
8 giugno 2010
Tarkan
1 Aprile 2010 — In totale abbiamo passato circa 5 ore e mezza in aereo, e almeno 25 in treno. E il treno è un habitat decisamente più naturale per noi esseri umani privi di poteri speciali. In particolare il treno ucraino. Dentro gli involucri di plastica, quattro per ogni cuccetta, uno a persona, abbiamo trovato due lenzuola una federa un asciugamano ed un pacchetto di fazzoletti che ci auguravano “buon viaggio!” E poi avevamo un materasso, un cuscino, una coperta e compagni di viaggio sempre interessanti.
Da Odessa a Kharkov sono 15 ore. Il treno partiva alle 18:50 e noi avevamo uno sguardo annebbiato dalla stanchezza e un paio di panini nello zaino, le nostre cuccette erano quelle in alto. Ma i compagni di viaggio non volevano sentire ragioni: spaparanzati nei loro comodi posti di sotto sgranocchiavano semi di girasole e ordinavano tè e birre per tutti, pregandoci di stare a nostro agio, forza forza, ed accomodarci nei posti in basso al loro fianco. Al mio fianco dunque c’era Hassan il turco, di mestiere “Teksil” come diceva la penna d’azienda. Nella borsa, un computer rotto ed un paio di campioni di stoffe improponibili a fiori rosa e grigi. Di fianco a Clava, un uomo enorme di cui non posso ricordare il nome, che chiameremo il Moldavo.
Parlate russo? Eh, no, voi parlate inglese? No. Per parecchi giorni ci siamo chiesti come siamo riusciti, quella sera, a chiacchierare con loro per tre ore consecutive. Riassumendo, abbiamo scoperto questo:
Hassan, di Istanbul, commercia in stoffe tra Odessa e Kharkov e quell’armadio del Moldavo è il suo traduttore, anche se spesso saltano fuori parole come Bodyguard che ci insospettiscono. Hassan ha una figlio.
Ieri sera Hassan è stato in una discoteca ad Odessa ed ha conosciuto una ragazza ucraina di 25 anni (ci fa vedere la foto sull’iPhone, ma più a Clava che a me). Siamo tutti d’accordo che i mediterranei sono scuri mentre i russi sono bianchi (blini).
Il Moldavo è andato a scuola per nove anni, mentre Hassan non più di sette. Circolano battute simpatiche sulla stupidità dei nostri compagni, naturalmente tra di loro, e poi c’è stupore per il lavoro di Clava: professore di inglese (è così che si guadagna la vita, in attesa di essere un artista di fama mondiale).
Clava assomiglia ad un cantante turco di musica pop, un certo Tarkan, del quale scriviamo subito il nome sul taccuino, promettendo di cercarlo su internet. Una delle poche parole che abbiamo in comune infatti è Google.
Hassan non ama gli Stati Uniti, ci dice che gli americani sono tutti sheitan, ovvero qualcosa con le corna. Tori? Solo dopo molto tempo, nell’allegria generale, capiamo che quelle corna stanno per “diavolo”. E da lì il passo è breve: siete cristiani?
Hassan è mussulmano, il Moldavo è ortodosso, Clava il paraculo si professa protestante. Resto solo io, l’atea. Hassan mi consiglia di leggere il corano. È stato tradotto in italiano? Allora devi leggerlo, raccoglie il sapere di tutti i profeti fino a Maometto, per questo l’unica religione vera è l’islam. Il Moldavo se la ride. Io assecondo, poi Hassan mi guarda e mi dice, in turco: Cristiani, Mussulmani, tutti buoni nel cuore. Annuisco con veemenza.
Alle undici si va a dormire, i semi di girasole vengono ritirati, il Moldavo toglie i jeans e sotto ha un paio di pantaloni dell’Adidas, tutti quanti crolliamo nel treno silenzioso e tropicale.
Alle 8 e 20, mezz’ora prima dell’arrivo, il controllore del vagone 6 ci viene a svegliare. La prima immagine che ho della mattina grigia e puzzolente sono le spalle del Moldavo viste da sopra, la sua canottiera viola, la catena con croce d’oro tempestata di brillanti, e il tatuaggio sulla spalla sinistra: una gabbia fatta a mano in inchiostro blu da galeotto, il tratto sbavato, un paio di colombe che volano via. Clava dalla sua posizione vede invece il volto furbo di Hassan, i capelli grigi, il completo a righe, la pelle molle sotto il mento e la barba da vecchio.
Siamo scesi dal treno per ultimi, dietro di noi erano rimasti solo loro, cauti, macchinosi, sospettosi, seduti nella cuccetta a controllare la situazione, con lo sguardo scaltro e professionale di due gangster alla luce del mattino.