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Osservare, selezionare, condividere.
28 marzo 2009
Anthony McCall è un’artista multidisciplinare nato nel secondo dopoguerra in Inghilterra, educato come graphic designer tra le colline del Kent e trapiantato a New York negli anni ’70. Le sue opere lavorano sull’intersezione tra installazione, film, scultura e performance. Con l’esperienza di mostre presso le più importanti istituzioni museali del mondo (dalle gallerie snob londinesi ai colossi americani dell’arte contemporanea) arriva in Italia ospite all’Hangar Bicocca di Milano. La sua installazione si svolge in uno spazio completamente buio, con all’interno una finissima nebbia e sette proiettori sospesi al soffitto.
Le proiezioni, dirette verso il pavimento, attraversano la foschia generando l’illusione di corpi tridimensionali. Avrete sicuramente presente il fenomeno che avviene quando, in una notte di nebbia, è possibile vedere con precisione la scia dei fari di un automobile. Allo stesso modo un cerchio, nell’obiettivo del proiettore, mostrerà la sua scia verso terra, delimitando una superficie conica.
Questo concetto di luce solida (lui li chiamerà “solid light film”) è alla base di questa serie di opere-sculture prodotte da McCall. Tutto ha inizio a New York negli anni settanta quando l’artista, già curioso del fenomeno, si cimentava in installazioni di luce lavorando sullo stesso concetto (anche se il fascio di luce non era visibile grazie alle macchine per la nebbia artificiale, ma alla polvere dei magazzini abbandonati e all’abbondante fumo delle sigarette).
Nonostante l’operazione fosse “semplice”, di enorme impatto e mai vista prima nella storia del cinema, l’arte video-scultorea di McCall restava confinata in un ambiente piuttosto ristretto. Venivano discusse nelle comunità di film e video d’avanguardia (i cui frequentatori erano spesso gli stessi registi e film maker), mentre le gallerie non comprendevano ancora come renderle fruibili.
Da quei tempi sono successe essenzialmente due cose:
1. Lo spostamento della proiezione da orizzontale a verticale.
2. Il passaggio da strumenti analogici a strumenti digitali.
È evidente come all’inizio, con proiezioni orizzontali, lo spostamento dal concetto di “cinema” fosse più contenuto (nonostante lo spettatore fosse già diventato “attivo”). Inoltre, una serie di caratteri del cinema analogico secondari influenzavano pesantemente l’esperienza dell’opera (dal ronzio della pellicola a 16mm che scorre nei binari del proiettore all’instabilità del tratto dei disegni a mano frame per frame).
In Line describing a Cone (1973) l’immagine proiettata in orizzontale è una curva che lentamente si completa fino a formare un cerchio (un cono, considerano la sua scia).
Insomma nel 2009 le sue opere le guardiamo senza ronzii e con il tratto perfetto di un computer, e proprio grazie ad esso le linee potranno avere movimenti molto più complessi e le superfici create essere più suggestive. Se Line describing a Cone era un film dell’avanguardia anni ’70 piuttosto prevedibile nel suo sviluppo, la sua serie Breath è un vero racconto imprevedibile dell’incontro di due (o più) forme: una linea che spezza una circonferenza, un’ellisse che espandendosi e contraendosi lentamente respira o l’accoppiamento — fusione — di due curve.
La mia sensazione è che le sei opere mostrate non esauriscano affatto le potenzialità insite nell’operazione (se siete curiosi leggete qui un’intervista a tal proposito). Sembra quasi che quel distacco dal “cinema” iniziato tanto tempo fa non sia avvenuto davvero. In una realtà in cui le possibilità di arricchire l’esperienza artistica sono aumentate, la proiezione di un filmato registrato non mi basta, soprattutto se l’intento è anche l’impredicibilità delle proiezioni.
Non mi riferisco alle possibilità di un’interazione più sofisticata con le opere (immaginarle reattive, per dirne una) ma penso allo spingersi oltre il preregistrato verso realtà completamente generata e unica — un ragionamento, questo, a cui sono molto affezionato.
Osservare e interagire con le “pareti effimere” generate dalle proiezioni è un’esperienza forte sia dal punto di vista estetico-formale, che da quello emotivo. Infatti, come notava lo stesso McCall durante l’inaugurazione, era molto curioso il comportamento delle persone che camminavano lungo le “impronte” dei solidi sul pavimento, scorrendo a fianco delle superfici generate come fossero pareti fisiche (“paradox is people following the path”).
La percezione fisica e “virtuale” delle superfici confusa fino al punto da sentirsi intrappolati da esse e ad abbassare la testa facendosi strada con il corpo prima di attraversarle sono tutti segnali dell’intensità dell’installazione (come lo è anche il torcicollo che durante la visita ignorerete per stare il più a lungo possibile a contemplare la sorgente luminosa dei solidi).
Infine, naufragio con i mezzi pubblici a parte — nonostante la mia buona volontà arrivare ad Hangar Bicocca con i mezzi non è stato semplice — l’installazione merita davvero una visita: fino al 21 Giugno 2009 in Via Chiese (qui tutte le informazioni).
Ci sono 1 commenti
;) bravissimi! e complimenti per gli sviluppi di personal report!
scritto da francesca il 4 aprile 2009 alle 11:13