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Cosa significa fare ricerca nell’ambito della visualizzazione delle informazioni oggi in Italia? Ce lo spiega il professor Paolo Ciuccarelli, direttore scientifico di Density Design Lab, laboratorio del Dipartimento di Design del Politecnico di Milano e una delle rare realtà che nel nostro paese si occupa di visualizzazione a livello accademico. Density Design lo conoscete per le infografiche di Link, idee per la televisione – ne avevamo parlato qui – e per quelle su La Lettura del Corriere. Ma c’è molto altro.
Cos’è Density Design Lab?
È un laboratorio di ricerca del dipartimento INDACO (Design) del Politecnico di Milano, opera nel campo della visualizzazione dei dati e delle informazioni.
Com’è nato?
Density Design esiste ufficialmente come laboratorio di ricerca dalla fine del 2010. Tutto è partito come iniziativa didattica: il tema della visualizzazione fu scelto per la prima volta nel 2004 come ambito su cui far lavorare gli studenti dell’ultimo anno di laurea magistrale in Design della Comunicazione. Col tempo ci siamo resi conto che esistevano i presupposti per avviare un’attività di ricerca in quel campo e abbiamo cominciato a lavorare in quella direzione.
Passare il cursore sopra le immagini per vederle nel dettaglio
↑ Una schermata di Fineo, un’applicazione web sviluppata da Density Design Lab per la visualizzazione delle relazioni tra categorie di dati in forma diagrammatica (qui maggiori informazioni, qui una gallery)
↑ Doppie pagine tratte da Link 10 – Decode or Die (qui la gallery completa)
Vi siete ispirati a esperienze esistenti?
Non c’è stato un modello, il laboratorio si è costruito strada facendo. Il mondo della visualizzazione dei dati è formato perlopiù da freelance, singoli designer, come Moritz Stefaner, Andy Kirk di Visualizing Data, Jan Willem Tulp, Gregor Aisch. Alcuni dei progetti che sviluppiamo ci accomunano con il SenseABLE City Lab del MIT, ma non possiamo considerarlo un modello: opera negli Stati Uniti… è all’interno del MIT… contesti completamente diversi dal nostro.
Quindi in Italia non esistono altri laboratori che si occupano di infografica?
Una puntualizzazione: l’infografica è la parte della visualizzazione dei dati e delle informazioni che riguarda i media; è uno degli ambiti di cui ci occupiamo. Il fine dei nostri progetti è, più in generale, costruire strumenti di visualizzazione che facilitino o potenzino processi di conoscenza. L’infografica non è il nostro ambito “naturale”, un laboratorio di ricerca si muove faticosamente sui ritmi di un quotidiano o di una rivista.
Tornando alla domanda, in Italia che io sappia non ci sono realtà analoghe al nostro laboratorio di ricerca, innanzitutto perché quello del Politecnico è un contesto peculiare, che ci ha permesso di sviluppare un progetto che ha bisogno di una massa critica che altre scuole di design (le poche che ci sono) non hanno. Anche al di fuori dall’università esistono poche agenzie o imprese focalizzate sulla visualizzazione di dati: una di queste è Visup, fondata da Daniele Galiffa, il primo studente a fare una tesi su questi temi al Politecnico; poi si va da Centimetri, una realtà storica, che produce infografiche per l’editoria a livello possiamo dire quasi industriale fino alla neo-nata The Visual Agency, in cui lavorano alcuni ex-studenti del nostro Corso di Laurea in Design della Comunicazione.
Su che tema stanno lavorando quest’anno gli studenti del laboratorio didattico legato a Density?
Ci stiamo occupando del tema della visualizzazione a supporto dei processi di osservazione delle controversie tecnico-scientifiche; un argomento legato a un progetto europeo triennale a cui stiamo lavorando in laboratorio. Sostanzialmente esploriamo il rapporto tra scienza e società rispetto a tematiche controverse e quindi difficili da divulgare come, ad esempio, il climate change. La visualizzazione è uno strumento fondamentale per capire come evolvono le controversie, i micro-contrasti tra le diverse posizioni degli attori, e presentarle ai cittadini in modo comprensibile.
Qualche progetto interessante a cui state o avete lavorato?
Il progetto europeo (EMAPS: Electronic Maps to Assist Public Science) è molto interessante, in primis per la rete di partner coinvolti, come Sciences Po a Parigi, il punto di riferimento per la sociologia e le scienze politiche. Stiamo lavorando anche sul fronte delle discipline umanistiche con lo Stanford Humanity Center. Un altro filone interessante è quello della visualizzazione a supporto del governo dei sistemi urbani. È sempre interessante poi sperimentare con fonti d’informazione non strutturate: i social network, ad esempio, ci possono dire molto su come le persone percepiscono la realtà.
Esiste un mercato della visualizzazione di dati?
Non è ancora un mercato maturo, ma sono ottimista! La domanda sta diventando sempre più esplicita, il campo di azione è in espansione, e proprio per questo abbiamo deciso di intensificare la presenza formativa del Politecnico con il ciclo di corsi “Visual Explorations”
C’è un progetto a cui vorreste dedicarvi avendo infinito tempo e infinito denaro a disposizione?
A queste condizioni penso che ci verrebbe una nuova idea ogni giorno! Un progetto che ci piacerebbe sviluppare e per il quale stiamo cercando un possibile finanziamento è capire cosa significhi oggi “cultura”, usando la rete; oppure disegnare la forma del design: una disciplina multidimensionale per natura, con molte facce, aree e attori diversi.
Quali sono le fasi per un buon progetto di visualizzazione di dati?
Dipende dal progetto ovviamente. Una delle difficoltà più grosse che sperimentiamo è far capire che il nostro lavoro non consiste solo nel dare una bella veste a dati preconfezionati: prima della fase di visualizzazione ce n’è un’altra, altrettanto importante e forse più pesante, in cui ci si rapporta direttamente con il dato. Si lavora sempre in simbiosi con un esperto della tematica che stiamo affrontando, che ci aiuta a capire quali informazioni ha senso far emergere. A volte il tempo dedicato ai dati è maggiore di quello dedicato alla visualizzazione, ma è fondamentale. Come sostiene Paul Mijksenaar parlando di wayfinding, la segnaletica non può risolvere i problemi di un edificio progettato male, e lo stesso vale per la visualizzazione dei dati: se i dati sono “brutti” lo sarà di sicuro anche la loro rappresentazione. Di base, per decidere il linguaggio e la tecnologia con cui comunicare i dati, ragioniamo su tre variabili: target, obiettivo comunicativo e contesto.
Cosa succede comprimendo questo processo in una settimana, come state facendo con il Corriere?
È impegnativo, il tempo non è molto, il processo non sempre lineare, e a volte dobbiamo confrontarci con cambiamenti improvvisi. I tempi e il processo di lavoro di un laboratorio di ricerca sono sicuramente molto diversi da quelli di un quotidiano. Lavoriamo assieme a dei giornalisti con i quali si decide il tema e spesso dobbiamo cercare i dati necessari a far emergere la “notizia”, prima di ragionare sulla visualizzazione. Per noi è un’esperienza interessante perché ci dà modo di sperimentare il limite tra ciò che può essere accessibile per il target del quotidiano e ciò che ci piacerebbe sviluppare per andare al di là delle infografiche tradizionali. I feedback per ora mi sembrano buoni.
Che temi trattate?
Si varia molto: l’ultimo lavoro trattava la frequenza con cui Pollock usava i colori nei suoi quadri; uno precedente mostrava quali fossero i brani musicali che hanno avuto più cover in un determinato lasso di tempo. Per Natale abbiamo ridisegnato il planisfero in base al valore di un pacchetto-vacanze costituito da volo andata-ritorno dall’Italia più tre notti.
↑ Pagine tratte da La Lettura (qui la gallery completa)
Lo scorso anno ha fatto parte della giuria ai Malofiej Awards. Quali criteri adottate per giudicare un’infografica?
Non esistono criteri rigidi scritti, ma sicuramente tra le prime cose che si verificano c’è la correttezza formale della rappresentazione. Subito dopo si valuta la capacità di veicolare un messaggio, la “notizia”. Le visualizzazioni del New York Times sono molto apprezzate anche perché trattano attraverso i dati e la loro visualizzazione tematiche non scontate; ne ricordo una che mostrava la densità dei taxi nelle strade di New York alle diverse ore del giorno: un dataset che nessuno aveva mai visualizzato prima.
Quindi non abbiamo ancora visto tutto? C’è ancora spazio per nuove forme di rappresentazione?
Sicuramente. Ci sono pattern visuali ben consolidati che si usano più di frequente, ma si possono combinare in modo nuovo, l’importante è non innovare solo per il gusto di farlo. Ogni pattern ha la sua naturale predisposizione a far emergere qualcosa, l’importante è esserne consapevoli. Sarà banale, ma non c’è niente di meglio di un istogramma per visualizzare alcuni set di dati.
Al mondo chi se la sta cavando meglio nelle infografiche d’ambito giornalistico?
È facile, basta vedere i premi assegnati a Malofiej. Le medaglie rispecchiano abbastanza quella che è la situazione attuale. Sicuramente il New York Times ha un ruolo molto importante, anche nel definire il modo in cui lavorare alle infografiche nelle redazioni: sono i primi che si sono posti il problema del rapporto tra poligrafici e giornalisti, due mondi sostanzialmente separati che loro sono riusciti a ri-unire in qualche modo nella figura dell’infografico.
Quindi in Italia c’è solo Francesco Franchi?
In effetti l’anno scorso a rappresentare l’Italia c’erano in concorso solo infografiche del Sole 24 Ore. Da noi il Sole è il leader di questo “movimento”. Grazie a IL e alla Vita Nova l’Italia ha fatto un passo importante nel campo dell’infografica. Ora gli altri stanno seguendo l’esempio, vedi il Corriere. Comincia ad esserci interesse in modo più diffuso.
Cosa pensa della moda che è scoppiata negli ultimi anni?
Credo che stia succedendo un po’ come con Internet: al momento viviamo una bolla, che come tutte le bolle è destinata ad esplodere, in cui un gran numero di visualizzazioni poco significative creano molto rumore. Il picco d’interesse è però anche utile a dare visibilità alla disciplina e ad aumentare la consapevolezza anche in persone distanti da questo mondo: dalle prime collaborazioni con gli statistici, noi ad esempio abbiamo cominciato a lavorare anche con sociologi e umanisti. Rispetto a pochi anni fa il territorio attorno a noi si è allargato molto. Quando la bolla si sgonfierà vedremo la scrematura e un processo di evoluzione più lento e più sano.
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